Mamma Suu
Mamma Suu, la chiamano.
Figlia di un generale comunista birmano, laureata ad Oxford ed ex membro delle Nazioni Unite, Aung San Suu Kyi vince le elezioni del 2015 con 291 seggi, diventando la prima donna Primo Ministro di Myanmar.
La sua vocazione politica inizia tanti anni prima: dopo aver fondato la Lega Nazionale per la Democrazia, nel 1988 si scontra in prima persona con il regime militare del generale Saw Maung; arrestata e costretta ai domiciliari, rifiuta la proposta di abbandonare la Nazione e si batte per elezioni libere, in cui trionfa con la Lega nel 1990.
La giovane attivista non smette di difendere i propri ideali democratici, di rivendicare la costruzione di scuole libere ed ospedali, di domandare più diritti per il suo popolo e di rimettere in discussione una società macchiata dalla soggiogazione e dalla paura.
Con il suo corpo esile ma con una gran voce dilagante, diviene presto vittima di una serie di attentati – fortunatamente tutti sventati – alla libertà e alla sua vita; per oltre quindici anni non le viene revocato lo stato di semilibertà imposto da una dittatura che tenta inutilmente di tenerla sotto scacco. È stata indiscutibilmente uno dei prigionieri politici più famosi al mondo, che con la sua determinazione e grinta, con l’intelligenza e l’onestà di una donna dagli alti valori, ha conquistato la comunità internazionale.
Nonostante la vittoria del 2015, il suo governo è stato duramente criticato per aver patteggiato con l’esercito e persino per aver soprasseduto a genocidi e discriminazioni etniche.
Ciò che purtroppo è vero, in un paese storicamente antidemocratico, è che la costituzione del 2008 assegna un numero fisso di seggi (il 25%) e alcuni ministeri chiave proprio all’esercito, il cui sostegno parrebbe necessario a volte per non cadere in un immobilismo governativo che non consentirebbe margini di manovra alla restante maggioranza.
Il colpo di stato
Lo scorso Febbraio Aung San Suu Kyi viene destituita da un colpo di stato militare: l’esercito torna pienamente al potere, capeggiato dal generale Min Aung Hiaing, e nel giro di poche ore sospende i diritti democratici faticosamente conquistati con la lotta alla dittatura Birmana. Un colpo di stato che non poggia su alcun valido motivo.
Dopo le elezioni del Novembre 2020 infatti, in cui la Lega ottiene e riconferma la maggioranza con un totale di 368 seggi, viene richiesta una verifica del risultato che porta la commissione preposta a negare la denuncia di brogli. A fronte di quest’esito inatteso e in ogni modo rifiutato dall’opposizione, l’esercito ha ordinato il rovesciamento del governo e l’incarcerazione dei principali esponenti del Partito uscente, Suu Kyi compresa.
La folla si è ribellata al golpe scendendo in strada e dando il via a dilaganti manifestazioni pacifiche, anch’esse duramente represse con l’istituzione della legge marziale.
La comunità internazionale ha condannato il golpe e le atroci azioni militari contro la popolazione; Aung San Suu Kyi è imputata per «importazione e utilizzo illegale di apparecchiature di trasmissione e ricezione radio», per aver «violato la legge sulla gestione delle catastrofi», ancora per «violazione della legge sulla comunicazione e incitamento al disordine pubblico».
In attesa della seconda udienza, alla sua ormai ex Primo Ministro, il Myanmar continua ad assistere all’uso improprio di armi e fucili contro i sanitari, razzie e assalti alle abitazioni private, oltre che minacce di cecchini contro civili pronti a rivendicare il loro diritto alla libertà.
C’è bisogno di forza delle idee, convinzione delle cause, tenacia per attraversare percorsi turbolenti ancora in atto. Una fermezza mentale che non deve vacillare neanche davanti alle critiche o nei momenti di pericolo per la propria vita e quella dei cari.
Ancora una volta Aung San Suu Kyi è chiamata come donna a resistere, a difendere se stessa ed i suoi traguardi che, senza dubbio, definiremmo, nel bilancio di tutto, ammirevoli.
Lo ha già fatto una volta e forse ce la farà di nuovo.