«[…]Poiché ho ribattuto che possiamo cominciare a sessuare il linguaggio nei miliardi di volte in cui si può fare senza nemmeno modificare la lingua, e poi ci occuperemo dei casi difficili, ecco subito di nuovo a chiedermi perché mai mi sarei accontentata di così poco. Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa?
Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere » (prefazione a Parole per giovani donne, 1993).
Lidia Menapace Novara 1924 – Bolzano 2020
PACIFISTA, STAFFETTA PARTIGIANA E TESTIMONE DELLA RESISTENZA
FEMMINISTA COME PIACE A NOI
Nel 1945 Menapace si laurea in letteratura italiana con il massimo dei voti e una tesi che, come racconta l’Enciclopedia delle donne, viene definita “frutto di un ingegno davvero virile”. Lei non si tira indietro dal ribattere prontamente che invece la candidata è proprio una donna e quindi casomai “isterica”, ma non certo virile.
“Poiché ho ribattuto che possiamo cominciare a sessuare il linguaggio nei miliardi di volte in cui si può fare senza nemmeno modificare la lingua, e poi ci occuperemo dei casi difficili, ecco subito di nuovo a chiedermi perché mai mi sarei accontentata di così poco. Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa?Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere “
“Se mi chiedete di raccontare la mia vita lunga oltre 90 anni, ci metterei un sacco di tempo e sarebbe un disastro per voi ascoltarmi…”.
È stata staffetta partigiana, sempre senza toccare le armi.
“Alla fine vengo ‘congedata’ col brevetto di ‘partigiano combattente’ (ovviamente al maschile) e col grado di sottotenente e divento furiosamente antimilitarista”, racconta in un contributo pubblicato dalla Libera università delle donne.”
Lei rifiuta il titolo e anche il riconoscimento economico: non aveva fatto la guerra come militare, spiega nel libro Resistè, e la lotta antifascista per la libertà non aveva un prezzo.
“Ragazze siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, cambiate pure uomo, l’importante è che non gli chiediate i soldi per le calze, perché non si può essere indipennti nella testa se si è dipendente nei piedi”
Nota Personale:
Per ricordare quanto siamo ancora allo stato primordiale per ciò che riguarda la parità di nome:
Era il 1993 quando veniva espresso il pensiero con cui apriamo questo articolo; oggi 2021 la cassa degli architetti Sarda ha accettato la dicitura “Architetta”, prima di loro solo Bergamo, Roma, Torino, Milano, Modena e Treviso ed era comunque il 2017.
Che pionieri mi vien da dire…
Fa riflettere, vero? Se il nome è potere, appropriamoci dei nostri nomi tanto faticosamente ottenuti: medica, architetta, sindaca, ingegnera.
Fa sorridere? Forse. Possiamo però prenderci il lusso di aspettare altro tempo per lasciare che la nostra professionalità scorra via come l’acqua di di un fiume? Vi invito a consultare la convenzione di Istanbul che sancisce (cap. 3.12) l’obbligo di «promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini».